Impaled Nazarene – “Latex Cult” (1996)

Artist: Impaled Nazarene
Title: Latex Cult
Label: Osmose Productions
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “66.6 S Of Foreplay”
2. “1999: Karmakeddon Warriors”
3. “Violence I Crave”
4. “Bashing In Heads”
5. “Motörpenis”
6. “Zum Kotzen”
7. “Alien Militant”
8. “Goat War”
9. “Punishment Is Absolute”
10. “When All Golden Turned To Shit”
11. “Masterbator”
12. “The Burning Of Provinciestraat”
13. “I Eat Pussy For Breakfast”
14. “Delirium Tremens”

Nessun cataclisma avviene senza un agente scatenante, senza lo sbandato o il piromane di turno a buttare il cerino dentro la santabarbara dando il via alla deflagrazione su larga scala. Di solito, in una rock band come in una qualsiasi altra cerchia sociale, prassi vuole che sia un elemento estraneo ad amalgamarsi con le caratteristiche di quelli dapprima presenti rivelandosi così il detonatore necessario all’esplosione di follia; a gente come gli Impaled Nazarene però non deve essere mai importato troppo né delle teorie sociologiche né di parecchie altre cose, tanto che nella loro personale crociata contro l’umana decenza è stato al contrario l’abbandono di un membro a dare una volta per tutte il via alla demenza generale, tratto ben evidenziato già dall’imprevedibile natura dei primi tre full-length fino al 1995 registrati ma, giunti in studio rimaneggiati ad inizio 1996, messo in risalto con risolutezza attraverso ogni espediente immaginabile. Il benservito dato al batterista fondatore Kimmo Luttinen l’anno prima innesca infatti con ogni probabilità nel fratello Mika un euforico delirio di onnipotenza, fondato sul fisiologico bisogno di rimodellare l’identità della creatura ora a conti fatti sua sulla falsariga della propria eccentrica personalità.
Sale quindi a bordo il tutt’oggi arruolato Reima Kellokoski mentre il futuro classico “Suomi Finland Perkele”, identificato a metà decennio d’uscita nelle sue presunte debolezze (particolarmente nella pecora nera dei suoi autori, la diversa e pregevole “Blood Is Thicker Than Water”) con le ingerenze da parte del defenestrato percussionista consanguineo -giunte al loro culmine nella rissa in studio da Kortalainen tra i due, i cui strascichi emotivi si porteranno via anche l’altro membro restante della sezione ritmica dei primi quattro album-, viene da subito preso a rumorose pernacchie in molteplici interviste promozionali; ci sarà tempo molto più in là per ritrattare tali dichiarazioni figlie di un ego strabordante nonché innaffiato di alcolici, ma per ora, e per proseguire coerentemente su una rotta più confacente ai tre musicisti rimasti dalle registrazioni del terzo disco, gli Impaled Nazarene badano soltanto a tenere incollato col mastice il piede all’acceleratore, mentre lo scassatissimo mezzo corazzato pilotato dai futuristici karmakeddon warriors (si parlava giusto su queste pagine, a proposito dei Voivod, di quanto e come il gruppo canadese fosse stato un’ispirazione per nulla secondaria nell’immaginario visivo da esso partorito dieci anni prima del quarto full-length dei finlandesi) punta allegramente verso un deposito di nitroglicerina prossimo a saltare in aria.

Il logo della band

A scanso di equivoci o aspettative di continuità col recente passato, l’anteprima “Motörpenis” rilasciata sul solo formato compact disc a fini promozionali lascia ben pochi dubbi sul piano d’azione del commando finnico su “Latex Cult”: blaterare ai giorni nostri sull’importanza capitale rivestita dai Motörhead in ambito Black Metal non costituisce di sicuro chissà quale novità, ma in piena epopea novantiana una riappropriazione così lampante in suono ed iconografia rappresenta l’ennesima sfida mossa dai quattro di Oulu alla coscienza collettiva di un genere che solo nel 1996 inizia a riscoprire l’humus da cui è stato concepito, accantonando il preteso quanto farlocco estraniamento alle proprie origini primordiali. A differenza però delle bordate trasheggianti sentite nella nemica Norvegia sui lavori di Aura Noir, Darkthrone e Dødheimsgard, gli Impaled Nazarene abbassano ulteriormente il livello di scolarizzazione e superano in tal senso di gran lunga questi nomi sfociando nel grado zero della musica estrema per eccellenza, ossia appunto i Motörhead, e tramite questo l’Hardcore Punk omaggiato dalle cover dei Gang Green e degli eroi locali Terveet Kädet.
Come ovvio, ad una formula talmente rozza ed impregnata della scatologica trivialità di simili influenze deve seguire l’ennesimo passo avanti nella completa degenerazione dei testi, intento nel quale il vocalist (che nel frattempo si è rasato a zero e ha messo su due scapigliati baffoni in sicuro ossequio a G.G. Allin, scomparso tre anni prima ma già divenuto archetipo della scorrettezza nel sottobosco underground) dimostra un impegno a dir poco encomiabile; ad affiancare infatti le lodi verso qualsiasi sostanza psicoattiva, le allusioni politiche ambigue ma nemmeno troppo e gli inni alla guerra atomica per la maggior gloria dell’Avversario, il grottesco universo lirico di Mika Luttinen si arricchisce con l’esaltazione della sessualità più torbida e scabrosa in seguito ripresa dall’altro viveur Nattefrost, per la quale lo sprezzante sadismo nei confronti della controparte femminile è metafora della prevaricazione senza scuse o compromessi da sempre insita nel four piece nordico.

La band

Non è del resto una totale coincidenza se, tanto nella memoria storica dei supporter quanto negli infuocati live show della combriccola, sia proprio “Motörpenis” la one-hit wonder solitamente associata all’intero “Latex Cult”, il cui singolo di lancio ne esprime effettivamente appieno ogni punto di maggiore e più immediata forza: in nemmeno due minuti e mezzo si concretizza il più splendido monumento mai eretto in campo Black alla figura di Lemmy Kilmister, incarnato manco a dirlo nell’indemoniato basso che sostiene il brano sfociando prima nell’ignorantissimo triplice assolo e poi nella coda in sinergia con le ultime oscenità prodotte dalla penna del frontman. Fresco pure lui di una separazione amministrata con la consueta, alticcia diplomazia finlandese (è praticamente contemporanea alle registrazioni del disco la sua indimenticata, mai totalmente accettata dai fan e ben turbolenta uscita dagli ormai idiosincratici Sentenced), Taneli Jarva pare per l’appunto mosso dal medesimo rancore del complice dietro al microfono e finisce così col risultare il playmaker assoluto nello sgangherato schema dell’opera, tra l’altro anche la sua ben poco celebrata ultima prima del ritiro totale dal contesto musicale estremo. L’onnipresente quattro corde è la cifra stilistica che maggiormente salta all’orecchio durante l’ascolto, tatuaggio indelebile dell’asso di picche britannico marchiato a fuoco sulle tredici schegge di granata incluse in tracklist, spinte sotto le unghie dal fu The Fuck You Man con l’aiuto dell’ottimo acquisto Kellokoski alle pelli. Non vi sono tuttavia i soli Lemmy, Fast Eddie e Philty Animal nel pantheon di suggestioni sonore percepite nella mezz’ora spaccata di ostilità, a cominciare dal sopra accennato rimando ai primi Voivod nella composizione e negli scenari da nuclear wasteland musicati dall’apripista “1999: Karmakeddon Warriors”; esempio di una malcelata angoscia transitoria di fine millennio quanto di scrittura grezza come quella di un Rrröööaaarrr”, eppure capace di imbastire un refrain dal sicuro impatto, lo stesso che prende per la gola nei sanguigni ritornelli della liricamente pruriginosa “Zum Kotzen” e del manifesto sadomasochista “Punishment Is Absolute”, con le sue per nulla scontate progressioni di accordi introdotte da un assai calzante skit a monologo rubato dalla controversa pellicola “Silent Night, Deadly Night” (autentico culto per i ragazzi finlandesi del circolo Helsinki-Espoo-Oulu nella seconda metà dei ’90, e che gli stessi correlati Children Of Bodom omaggeranno senza troppi misteri nel classico brano del 1999, intitolandolo alla loro inconfondibile maniera “Silent Night, Bodom Night”).
D’altro canto gli Impaled Nazarene non hanno affatto accantonato la sofisticata arte del mordi e fuggi di un minuto o poco più, sprigionata con la doppietta “Violence I Crave”“Bashing In Heads” e culminante, dopo l’accattivante “When All Golden Turned To Shit” (con l’opener, promossa tra l’altro con uno dei primi video professionali della storia girati per un brano Black Metal), nella leggendaria “I Eat Pussy For Breakfast”, passando come impone la tradizione attraverso il consueto leitmotiv ovino di “Goat War” oppure diluendone la furia dal sapore Grind in episodi allungati quali “Alien Militant”, come nell’imprevista ricercatezza atmosferica di riff ritmici in “The Burning Of Provinciestraat” (dove dopo l’inizio ricalcato da “Steelvagina” del precedente album, irrompe un tanto inaspettato quanto sicuramente involontario tributo agli Emperor di “Towards The Pantheon”), nella perla di diversità finale “Delirium Tremens” o in “Masterbator”: ufficiale atto di nascita dello storico slogan vittu saatana perkele mandato a memoria da qualunque cultore delle gesta dei Nostri.

Tuttavia, definire il quarto full-length come il big bang da cui hanno inizio i folli Impaled Nazarene attuali, votati all’iconoclastia Punk piuttosto che all’ortodossia Black, significherebbe innanzitutto svalutare la portata anarchica della trilogia precedente, in realtà vera summa del polimorfismo della band dove le classiche “Sadhu Satana” e “Ghettoblaster” coesistevano con esperimenti tipo “Gott Ist Tot” e “Quasb”. Molto meno schizofrenico e per questo motivo ampiamente fruibile da chi abbia già l’udito temprato a sufficienza, “Latex Cult” resta piuttosto dopo venticinque anni dalla sua pubblicazione un compatto bolo vomitato alla luce del sole ed in pubblica piazza, atto a generare null’altro che disgusto mascherato da indifferenza in quei blackster che, all’epoca, preferirono turarsi il naso e voltarsi dall’altra parte. Sebbene adorati da un manipolo di fedeli ritornato col tempo a dimensioni accettabili, capitan Luttinen e soci piomberanno, proprio da qui, nel pericoloso limbo dei grandi monicker additati dalla vulgata come autori di prove valide ma ripetitive, di giocare in casa e di non sperimentare nonostante già col fenomenale Rapture” (1998) si dimostreranno capaci di lavorare sui riff tirando fuori un disco dal sound forse similare ma anche più riuscito a tutto tondo.
Un destino infame che la brigata finnica affronterà sempre dal basso del proprio spirito dissacrante, alternando stili e componenti ma tenendosi in verità stretta la voglia di osare, almeno finché dura la bottiglia di Jack Daniel’s; si passerà quindi dalla rasoiante presa immediata di “Absence Of War…” alle tirate a testa bassa di Pro Patria Finlandia”, con il cuore sì legato ai capolavori pre-1996 ma pure un occhio di riguardo puntato al serio disimpegno sonoro ed ideologico rivendicato nei solchi di “Latex Cult”, quando Slutti666 declamava a cuor leggero di essere l’horniest morherfucker on earth.

Michele “Ordog” Finelli

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